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Prontoweb: interviste

di Pasquale Popolizio

Intervista a Giancarlo Livraghi


gennaio 2005


Qual è e come è cambiata negli anni la percezione della comunicazione per il Livraghi studioso, filosofo, giornalista, scrittore, comunicatore e tecnologo?

“Tecnologo”... non troppo. Le mie competenze tecniche sono limitate. Cerco di capire il ruolo delle tecnologie dal punto di vista di chi le usa - cioè in una prospettiva umana. Credo che sia importante capire la varietà delle risorse disponibili e la molteplicità dei loro impieghi: saper usare indifferentemente una matita o un computer, un radar o un compasso, un libro o un sito web, scegliendo lo strumento più adatto secondo la situazione.
La sostanza di ciò che vuol dire comunicazione non è cambiata negli ultimi diecimila anni. Un fatto importante, e spesso trascurato, è che si può imparare molto sulla situazione di oggi studiando l'evoluzione dei sistemi di comunicazione dai tempi delle caverne ai nostri giorni. C'è un testo piuttosto lungo su questo argomento che è stato pubblicato nel marzo 2004 ( “Cenni di storia dei sistemi di comunicazione”) e una sintesi molto più breve in un articolo dell'agosto 2004 (“Il computer di Archimede”).
Anche in tempi recenti, le cose cambiano meno velocemente di quanto può sembrare - e raramente in modo lineare, prevedibile o coerente. Se ci sono fenomeni di evoluzione, ce ne sono altri di involuzione o arretramento culturale. È facile, purtroppo, constatare come la moltiplicazione delle risorse coincida con un vistoso decadimento dei contenuti e della qualità di comunicazione. Sembriamo un po' ubriacati dall'abbondanza, siamo palesemente confusi dalla spasmodica moltiplicazione di aggeggi e congegni di discutibile funzionalità.
Molti fenomeni mi portano a credere che, da almeno vent'anni, la qualità della comunicazione, dell'informazione e della cultura stia degenerando. Ma è sbagliato generalizzare. Siamo in una fase turbolenta e complessa, di cui non è facile capire il percorso. Credo che si debba continuare a imparare ogni giorno, sfidare continuamente le nostre convinzioni, cogliere le scintille disperse, ma non inesistenti, che brillano nell'oscurità di questa lunga eclissi dei valori.


Nel suo libro “Il potere della stupidità” scrive che «Affrontarla, conoscerla, capirla è il primo e fondamentale passo per ridurre il suo insidioso potere». Le chiedo, quale potere ha la stupidità?

Ha un potere enorme - e catastrofico. Diceva Robert Heinlein nel 1941: «non attribuire a consapevole malvagità ciò che può essere adeguatamente spiegato come stupidità». Come osservava Carlo Cipolla nel 1988 «lo stupido è il tipo di persona più pericolosa che esista». La stessa constatazione è stata fatta anche in altri contesti - ed è una diffusa nozione di buon senso. La storia di tutti i tempi, come la cronaca quotidiana, dimostra che nessun comportamento umano ha una capacità distruttiva paragonabile a quella della stupidità. Eppure c'è un'incredibile scarsità di studi e approfondimenti su questo tema.
Naturalmente il mio libro non ha la pretesa di risolvere radicalmente il problema, perché la stupidità non è eliminabile. Ma non è invincibile - conoscerla e capirla è il modo migliore per limitarne e i danni (e, quando possibile, evitarne in anticipo le peggiori conseguenze).


Possiamo ipotizzare che programmi televisivi come “Il fatto” di Enzo Biagi e “Sciuscià” di Michele Santoro siano scomparsi perché allenavano gli spettatori a individuarla?

Sono scomparsi perché sgraditi al potere dominante. Anche se l'evidenza sembra indicare il contrario, nessuno può essere irrimediabilmente condannato a essere stupido. Per quanto imperversante sia il potere della stupidità, e per quanto possa sembrare desiderabile a chi detiene il potere rendere “le masse” il più possibile stupide e ottenebrate, è difficile costringere perennemente un conduttore televisivo (o a qualsiasi altro “operatore culturale”) a fare cose stupide o a trattare il pubblico da stupido. Lo fanno perché ci credono, perché ne hanno voglia, perché immaginano che sia quello l'unico modo per farsi ascoltare, perché si illudono di affermare la propria superiorità coltivando la stupidità altrui (o anche, semplicemente, perché sono così stupidi da non sapere di esserlo).
Il problema è che il sistema (non solo in televisione) è disperatamente “autoreferenziale”. Il circolo vizioso della stupidità fa sì che, a forza di trattare il prossimo da stupido, si diventa stupidi - e la spirale continua a sprofondare verso il rimbecillimento universale.


Le nuove tecnologie hanno permesso la nascita di televisioni, radio e giornali indipendenti gestiti e autogestiti da reti umane rese visibili da bit e codice html. Con tutto questo passaparola, secondo lei per quanto sarà ancora possibile, in questo mondo, dichiarare il falso?

Temo che dichiarare il falso sia non solo una cosa possibile, ma anche una pratica largamente diffusa, oggi come in ogni prevedibile futuro. Il problema non è solo la proliferazione di falsità che, a forza di essere ripetute, sembrano vere. È anche una diffusa disponibilità a credere in ogni sorta di cose inverosimili, perché seguire e imitare è molto più facile che pensare. Oggi, ovviamente, tutto questo è meno perdonabile, perché non siamo costretti a subire, non siamo condannati all'ignoranza. Ma l'ignoranza piace, la moda seduce, l'obbedienza è comoda.
Il passaparola è sempre stato uno strumento fondamentale di comunicazione - e non ha perso importanza né valore nell'era dei “mass media” (vedi “Il passaparola”). Il fatto nuovo è che con i sistemi di rete si sono enormemente allargate le possibilità di dialogo personale. Ma, anche in questo caso, lo strumento non basta. Usiamo il passaparola per rompere la barriera della disinformazione o per ripetere le solite banalità? La scelta è nostra - e non è sempre facile.


Le appiattite informazioni, filtrate dai media tradizionali, immettendosi nelle reti cablate si spogliano della imposta monotonia per tuffarsi nei colori dell'obiettività raccolti dalle mille voci della rete. Tutto questo è rumore, democrazia o cosa?

L'obiettività è sempre relativa. Anche chi si esprime con piena sincerità, e non manipola le notizie, può sbagliare. Ognuno di noi ha le sue opinioni - e ha il diritto, se non il dovere, di esprimerle come ritiene più opportuno.
È vero che la rete, per chi ne sa scoprire l'infinita varietà, è più libera e meno condizionata dei sistemi centralizzati - e, in generale, dei “mezzi di massa”. Ma ciò non vuol dire che tutto ciò che si trova in rete sia oro colato. Proprio perché ognuno è libero di mettere online ciò che vuole, è inevitabile che fra le “mille voci della rete” ci siano anche quelle stonate - per intenzionale deformazione, inconsapevole errore o banale ripetizione delle stesse panzane e fatuità che invadono la cultura dominante.
Insomma bisogna saper scegliere. Proprio perché nessuno può imporre a un sistema complesso e molteplice come la rete una linea di idee o di comportamento, sta a ognuno di noi capire di chi ci possiamo fidare e con chi ci interessa avere un dialogo. È interessante, può essere affascinante, ma è impegnativo. Nel mondo un po' ottuso e banalizzato in cui viviamo, sembra che pensare con la propria testa sia diventato un esercizio difficile, fastidioso, quasi indesiderabile. Non basta scoprire l'esistenza della rete per uscire dal sonno della ragione. Bisogna anche essere capaci di aprire li occhi.


L'internet, oltre a essere femmina, è anche comunista?

Se per “comunista” intendiamo uno schieramento politico, la risposta è no. Nell'internet, se non è censurata, c'è posto per tutte le opinioni. La rete è repressa violentemente in paesi che si dichiarano comunisti, come la Cina, e con altrettanta durezza in regimi di diverso colore politico.
Se invece ci riferiamo a al concetto di comunità, all'idea di qualcosa che appartiene a tutti e di cui nessuno è proprietario, questo attributo si adatta bene alla natura della rete - quando è usata con intelligenza, libertà, apertura mentale e rispetto reciproco.
(I motivi per cui la rete è femmina sono spiegati nel capitolo 10 di “L'umanità dell'internet”).